I’d like to see, how you all would bleed for me
Per la mia generazione, che non aveva vissuto quelle degli altri appartenenti al Club 27, la morte di Kurt Cobain è stata uno spartiacque. Ha insegnato (ricordato) a torme di adolescenti con capelli lunghi e camicioni di flanella che anche gli idoli muoiono, e spesso non di vecchiaia. Un evento traumatico, amplificato dallo stesso meccanismo mediatico che probabilmente l’aveva in parte causato.
Prima le foto del cadavere, o almeno quelle della sua parte rimasta integra, con i mozziconi di sigaretta sparsi sul pavimento, la scatola con il kit per bucarsi, poi le immagini di una specie di funerale diffuso in varie città del mondo, e infine le teorie complottiste, i retroscena: tutto questo ha trasformato il suicidio di Cobain nell’ultimo banchetto che i media hanno preteso da un ventisettenne che a quello spettacolo forse non aveva mai chiesto di partecipare, e che una volta invitato e intrappolato a tavola non aveva trovato altra via di fuga che imbracciare un fucile e puntarselo alla testa.
«Meglio andarsene con una fiammata che spegnersi lentamente»: è la frase di Neil Young che Cobain citava nella lettera di addio. C’è poco da aggiungere, mi pare.
A fare da controcanto a quella morte, così eclatante e urlata, ce n’è stata un’altra, di certo meno mediatica, forse meno universalmente sentita, ma che per alcuni della mia generazione (di sicuro: per me) è stata forse anche più sottilmente inquietante.
Sono passati otto anni dalla scomparsa di Cobain, e a morire stavolta è Layne Staley, cantante di quegli Alice in Chains che con i Nirvana hanno condiviso in parte la fama, ma soprattutto l’etichetta – imprecisa, come tutte le tassonomie giornalistiche – di grunge.
La particolarità della morte di Staley, quello che la rende per certi versi speculare a quella di Cobain, è che è silenziosa. Quando il cadavere viene trovato, nella vasca da bagno di un appartamento in un anonimo condominio di Seattle, è difficile dire da quanto tempo sia lì. Pesa 39 chili, per il riconoscimento tocca affidarsi alle impronte dentali, e vista l’avanzata decomposizione la morte viene retrodatata a due settimane prima del ritrovamento.
Al 5 aprile, lo stesso giorno di Cobain.
Potrei sbagliare, ma a quel che mi ricordo stavolta non ci sono giornalisti senza scrupoli che si inzaccherano le suole con i resti della rockstar, stavolta non ci sono cordoni di polizia a tenere lontani i curiosi. In rete si trova l’annuncio della morte dell’epoca dato su MTV. Non è affidato, come nel caso di Cobain, alla voce cavernosa e al tono patibolare di Kurt Loder, ma a un veejay che non ricordo di aver mai visto. Parla di un centinaio di fan che si sono ritrovati a Seattle per ricordare il cantante, in uno spezzone filmato ne vediamo una ventina davanti a una fila di candele.
E un centinaio sembra siano state anche le persone, tra fan e amici, che hanno partecipano alla cerimonia funebre pubblica del 20 aprile 2002, sempre a Seattle.
Una morte intima: nessun complottismo, nessuna battaglia legale, solo un junkie che si è spento – lentamente? – nella vasca da bagno di casa sua, senza che nessuno se ne sia reso conto, per ore, e giorni, e settimane.
Che cantasse come un dio, a quel punto, non aveva più nessuna importanza.


