particolari
Più scrivo e leggo, cercando di capirci qualcosa, più mi pare che la grande scrittura sia fatta soprattutto di particolari. E se per molti altri aspetti della scrittura è possibile perseverare, imparare, migliorare, l’occhio che serve per certi particolari temo sia un dono che o ce l’hai, oppure no. Per esempio:
«I primi mesi, risvegliandomi, trovavo spesso mia madre seduta sul fondo del letto, il lungo collo piegato verso di me, come a curare il sonno del figliolo, che nessuno ne disturbasse il riposo. Ma presto cominciò a preoccuparsi, a interrogarmi come per caso, come soprappensiero, e mi lasciava sul comodino il termometro e una tazza di caffè. Una mattina provò a chiamare il medico, ma per fortuna costui arrivò in una delle mie poche ore di veglia. Vidi dallo spioncino l’uomo e la sua borsa nera, e mi guardai bene dall’aprire: ma insisteva, il tipo, scampanellava, e cosi costrinsi la mia vecchia a dire, con la sua voce sempre più debole, che doveva esserci un equivoco, che qui tutto andava bene, che forse al piano di sopra. Fausto, fece mia madre quando per le scale si spense l’eco dei passi del medico, Fausto, parlami ti prego, e si teneva aggrappata al bavero del pigiama come al davanzale di una finestra altissima.»
Questo è tratto dal racconto Il campanile bruno di Marco Lodoli, in Grande Raccordo. Ecco, l’occhio che serve per vedere la madre aggrappata al bavero come al davanzale di una finestra altissima, secondo me, o ce l’hai, oppure no. E ancora, stesso libro, dal racconto Brio:
«… era la prima volta che io ascoltavo la sua voce parlare. Era come la gonna che indossava: bianca e con le pieghe.»
Piccoli, benedetti, fondamentali particolari.


