The Long Walk
Regia – Francis Lawrence (2025)
Io ve lo giuro, questo film volevo vederlo in sala. Ho passato l’estate a controllare tutti i santi giorni l’esistenza di una data di distribuzione nel nostro paese. Non l’ho mai trovata. Oggi, facendo l’ennesimo tentativo, ho visto che dovrebbe essere prevista per la metà del mese di febbraio 2026. Tendenzialmente, sarei una persona per bene, nel senso che, se ci fanno la cortesia di portare un film al cinema da noi, lo aspetto: ho fatto così per Maxxxine, ho fatto così per Bring Her Back e per molti altri che non sto qui a elencare perché lo sapete.
Però poi mi fanno incazzare: non è possibile che un film di questa portata ci metta la bellezza di cinque mesi per essere distribuito in Italia, non negli anni ’20 del XXI secolo, quando si sa che la finestra tra la sala e il digitale è sempre più breve. Se tornerò al cinema e pagherò il mio biglietto per vedere il film? Certo che sì: il piccolo schermo, soprattutto per un’opera così, è mortificante, quindi a febbraio sarò in prima fila, sempre che la data sia reale. Ma mi si perdoni se proprio non potevo aspettare.
The Long Walk è l’adattamento, dopo una gestazione durata una quantità spropositata di anni, dell’omonimo romanzo di Stephen King, ma scritto sotto lo pseudonimo di Richard Bachmann, uscito nel 1979 e scritto parecchio tempo prima. Si tratta di un libro giovanile, arrabbiato come tutti quelli firmati Bachmann, e con una qualità molto peculiare, che mi viene da definire feroce lirismo. Se capita di leggerlo a una certa età, credo sia uno di quei libri che ti resta dentro per sempre, e al quale si tende a ritornare spesso, in diverse fasi della propria vita. Almeno, questo è ciò che è successo a me: ho letto La Lunga Marcia prima di IT e poco dopo Pet Sematary. Ora non ricordo con precisione, ma potrebbe essere il mio secondo libro di King. Dovevo avere circa quattordici anni, quindi, giusto un paio in meno dei protagonisti del romanzo: cento ragazzi che camminano attraverso tutto lo stato del Maine in una crudelissima gara a eliminazione diretta. E per eliminazione, si intende eliminazione fisica.
Per la vostra, si tratta di un libro importante, uno dei più importanti nella sua formazione culturale. Aspetto questo adattamento da più di trent’anni, eppure il progetto di portare sullo schermo il romanzo è ancora più antico. Il primo tentativo risale infatti al 1988, e a dirigerlo doveva esserci nientemeno che Romero, ma sono innumerevoli i registi che si sono avvicinati a La Lunga Marcia. È quasi un miracolo che qualcuno sia finalmente riuscito a realizzarlo, e credo c’entri molto con il clima culturale che stiamo vivendo.
Se mi fidavo ciecamente di alla sceneggiatura, avevo qualche perplessità su Lawrence, che non è poi questo manico, anche se rimango sempre molto legata al suo Constantine. Invece, sono proprio la messa in scena e le scelte di regia compiute da Lawrence a fare di The Long Walk in grande film che è. Moliner è bravo, per carità, fa un lavoro pulitissimo, rimanendo fedele al libro e cambiando giusto quelle tre o quattro cose che servono a rendere il tutto più snello (non più cento, ma cinquanta partecipanti alla Marcia, le motivazioni di Garraty, la storia della cicatrice di Pete) e aggiornato ai tempi attuali. Attua solo un enorme, macroscopico cambiamento nel finale, ma ci sta, è giusto e coerente col tono del film. Per il resto, sale sulle spalle del gigante King e le usa per guardare più lontano possibile.
Lawrence, dal canto suo, non so cosa si sia bevuto o fumato, ma è un poeta.
Il problema principale di un adattamento cinematografico de La Lunga Marcia è che il romanzo si svolge tutto all’interno del paesaggio interiore del protagonista Garraty, il numero 47, il beniamino del Maine. Per quanto ci siano tanti altri personaggi, non è una storia corale, è la sua storia, e tutto ciò che accade è filtrato dal suo sguardo.
Lawrence, al contrario, fa del suo film una vicenda collettiva, togliendo Garraty dal piedistallo di protagonista assoluto, dando quindi più spazio agli altri e, soprattutto, a Pete McVries, il numero 23, il ragazzo con la cicatrice, qui interpretato divinamente da .
La rabbia, l’aggressività, la sgradevolezza del romanzo vengono stemperate da Lawrence in un canto a più voci di ragazzi condannati a morte che non ci stanno a perdere la propria umanità, anche quando un soldato sta per far saltare loro la testa.
Non è affatto una visione leggera, e alla prima carabina che tuona, comincerete a sentire uno strazio interiore che non vi abbandonerà fino a molte ore dopo che la parola fine sarà apparsa sullo schermo; è anche un film violento e truce, che non risparmia i dettagli più rivoltanti di una situazione simile e mette in evidenza con crudezza cosa succede a un corpo quando lo spingi oltre i limiti, o semplicemente quando è costretto a espletare delle funzioni obbligatorie in un contesto in cui anche fare la pipì può costarti la vita. E tuttavia, The Long Walk è un film di straordinaria dolcezza, il che, se ci pensate, è anche più doloroso.
In questo, Lawrence azzecca in pieno quel registro di feroce lirismo del romanzo di cui parlavo in apertura, e addirittura lo amplifica, trasformando un romanzo grezzo e ancora acerbo in una matura dissertazione su quanto è precario il nostro passaggio sulla terra, quanto la sua durata, comunque breve, è frutto di circostanze minime, sulla palese truffa della sopravvivenza del più forte o adatto.
Lawrence ha voluto girare il film in ordine cronologico, facendo camminare gli attori per diversi chilometri in differenti condizioni atmosferiche e di luce. Questo ha dato al risultato finale un’energia ruvida e un senso di urgenza quasi palpabile: The Long Walk sembra un film della New Hollywood anni ’70, e lo si distingue dal cinema di quella stagione giusto per una pulizia visiva maggiore e per qualche effetto speciale aggiunto in post produzione. A parte questi dettagli, si capisce che l’intenzione di Lawrence era quella di ricreare la “pasta” di quelle pellicole. Più Non Si Uccidono così anche i Cavalli che Hunger Games, per essere il più chiari possibili.
La natura politica di un film di questo tipo è evidente in ogni fotogramma, e non solo per ciò che accade ai marciatori, ma per tutto quello che vive e respira ai margini dell’inquadratura, lungo i campi, nelle città disabitate che i ragazzi attraversano, nei volti dei pochi spettatori sul ciglio della strada: un’America sprofondata nel terrore e nell’incertezza, che manda a morte i suoi giovani nella promessa di ricchezze inimmaginabili e di desideri da realizzare. Si tratta, ed è evidente nel momento in cui si mette il primo piede sull’asfalto, di una falsa promessa, di un gioco truccato, una partita che non puoi vincere, anche se rimani l’ultimo uomo in piedi.
Il romanzo, scritto a metà degli anni ’60 era una metafora, molto evidente, della guerra in Vietnam. Il film, su questo, fa un ottimo lavoro di ambientazione, perché, pur non dando precise indicazioni cronologiche, situa la vicenda in una versione alternativa e distopica degli anni ’70: è cambiato tutto e non è cambiato niente, e c’è qualcosa di sbagliato e di corrotto nell’identità stessa di un paese. Letto oggi, La Lunga Marcia era in anticipo sui tempi, non forniva spiegazioni, non dava dettagli sulla dittatura che dominava gli Stati Uniti, non raccontava nulla sul Maggiore e su come si era instaurato il suo potere: ogni cosa era data per scontata e inserita in un discorso più ampio sulla natura autoritaria del sistema americano.
Anche qui, il film ci prende in pieno, lasciando la periodizzazione sul vago e facendo così intendere che l’autoritarismo sia una qualità intrinseca della “più grande democrazia del mondo”.
Che da Hunger Games siano passati più di 10 anni è evidente: quella era la storia di una ribellione, mentre La Lunga Marcia è la storia di una mandria di mucche al macello, che proseguono a camminare al di là dei loro limiti di sopportazione in vista di un miraggio nebuloso.
Anche The Long Walk quindi rientra in questo smottamento recente del cinema dell’orrore che ha ripreso a guardarsi alle spalle e, con rassegnato disincanto, prende atto di un gigantesco fallimento e punta dritto alla struttura delle cose, immutabile, eterna, sbagliata nella sua essenza e troppo grossa per essere davvero modificata.
Non è una tendenza soltanto dell’horror: Eddington, House of Dynamite, Civil War e Warfare hanno tutti questa impostazione. Non so se siamo arrivati alla fine a un irrecuperabile cinismo o se sono le fondamenta di qualcosa di nuovo. Lo vedremo.
Per ora, godiamoci questi splendidi film e ringraziamo.


