Rossella Romano's Blog - Posts Tagged "racconto"
Libera Uscita - Racconto distopico completo
Poiché non mi era più possibile offrire gratuitamente su Amazon questo racconto, l'ho ripubblicato al prezzo minimo, 89 centesimi. Per poterlo inserire nel programma Kindle Unilimited, in modo che fosse scaricabile gratuitamente agli abbonati, ho dovuto rimuoverlo anche da Goodreads.
Published on January 07, 2016 13:51
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Tags:
distopia, distopico, fantascienza, racconto, rossella-romano
Pan Valentino -
Poiché non mi era più possibile offrire gratuitamente su Amazon questo racconto, l'ho ripubblicato al prezzo minimo, 89 centesimi. Per poterlo inserire nel programma Kindle Unilimited, in modo che fosse scaricabile gratuitamente agli abbonati, ho dovuto rimuoverlo anche da Goodreads.
Published on February 08, 2016 08:01
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distopico, fantascienza, racconto, rossella-romano, san-valentino
Tic Tac Horror 3 (Passo Falso)
Il racconto è adesso pubblicato nella nuova raccolta: Tic Tac Horror & Storie di Scrittura, inclusa nell’abbonamento Kindle Unlimited e in vendita su Amazon a 89 centesimi.
Published on April 13, 2022 07:15
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orrore, pillola-di-terrore, racconto, racconto-di-due-frasi, rossella-romano, tic-tac-horror, two-sentence-horror
Tic Tac Horror 12 - Vampiro
A breve il racconto verrà inserito nella nuova edizione della raccolta "Tic Tac Horror &Storie di Scrittura"
Published on August 31, 2024 01:09
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fantascienza, horror, intelligenza-artificiale, racconto, rossella-romano, tic-tac-horror
Tic Tac Horror 13 - Fantasma
A breve il racconto verrà inserito nella nuova edizione della raccolta "Tic Tac Horror &Storie di Scrittura"
Alice Pleasance Liddell
Che cosa è la vita, se non un sogno? lesse Alice chiudendo il libro con un sospiro e posandolo accanto a sé.
Sollevò gli occhi, lasciando che un pensiero furtivo s’insinuasse nella sua mente: Vorrei esserne capace ancora.
Si era nel primo pomeriggio, ma quel giorno di novembre era tanto cupo da averla costretta, poco prima, ad accendere il lume sul tavolino accanto alla poltrona su cui sedeva: la finestra era colma solo di nubi pesanti, quasi nere, delle sagome degli alberi in balia del vento.
Forse era stata la fiammella nella lampada, il riflesso del suo quieto ondeggiare trasformato in un lucore diffuso e vibrante, ad attirare il suo sguardo verso lo specchio. Era proprio lo stesso, traslocato caparbiamente di casa in casa. Da bambina lo aveva attraversato senza alcun problema – un segreto ben celato da un dolce inganno: chi aveva raccontato a chi, in quel pomeriggio estivo sul lago? – ma da anni, da quando aveva deciso di essere cresciuta, era divenuto una lastra impenetrabile. Liscia, fredda e un po’ macchiata, nei punti in cui l’argentatura aveva iniziato a deteriorarsi. Proprio come l’età adulta.
C’erano due gattini tigrati, addormentati nella cesta dei gomitoli, e la madre dei due poco distante, accoccolata sulle pietre ancora calde del camino. Un tempo Alice se ne sarebbe stata lì, appagata, a guardare il loro quieto ronfare; le orecchie che si muovevano di scatto, la codina che ogni tanto tremava, anche nel sonno… Chi dei due si sarebbe mosso per primo?
Non si era quasi mai annoiata, prima, e quando accadeva, quando anche le chiacchiere, il facciamo finta non bastavano più, c’era sempre una possibilità di fuga, giusto dietro l’angolo della realtà, quello scorcio di corridoio, nello specchio, oltre il quale era impossibile guardare.
Mi aggrappavo alla mensola del camino e mi sporgevo in avanti, ricordò, per vedere se fosse identico a quello da questa parte, se fosse davvero un noioso, ordinario corridoio… È così che ci son finita dentro, la prima volta.
D’un tratto qualcosa nel suo ventre svolazzò, risalì, fermandole il cuore per un attimo, arrivò a soffocarle il respiro.
Potresti provarci ancora… insinuò una voce sottile e ambigua, nella sua mente. Non la sua voce interiore, no… Alice, udendola, aveva subito immaginato quel sorriso, sospeso magicamente a mezz’aria.
Potresti addirittura riuscirci… le suggerì, in tono più deciso.
Il cuore riprese a batterle, ma veloce, inopportuno, come volesse recuperare il tempo perso. Alice guardò i gattini, poi la gatta. I primi dormivano, indisturbati, la seconda sonnecchiava, ancora immobile e solenne come una statua: non si erano accorti di nulla.
«Sei una sciocca» sussurrò alla stanza quieta, e il suono della sua stessa voce d’un tratto le parve estraneo, sbagliato, troppo educato, troppo…
Posatevole.
Stavolta Alice sobbalzò, raddrizzando la schiena, guardandosi intorno impaurita: le era sembrato di udirla, quella parola valigia, di udirla davvero.
Ma, eccettuato il pigro sguardo a occhi socchiusi che la gatta di casa le riservò, voltando leggermente la testa, nulla accadde.
«Sì» ammise lei con un sospiro, gettandosi di nuovo indietro, a cercare il solido, sicuro sostegno dello schienale. «È proprio così. Sono posata e ragionevole, ormai, moltissimo; sono perfettamente cresciuta come chiunque altro; senza aver avuto bisogno di dispotiche boccette, biscotti invitanti e… e… lati opposti di strani funghi! Non ho proprio alcun desiderio di chissà quali assurdità… e intricati giochi di parole… e…».
Meraviglie.
Lo pensò, senza dirlo a voce alta. Una sola parola, ma così carica di tutto ciò che era stata, un tempo. Prima che cessassero i saltelli per mimare l’andatura di un cavallo, il rotolare giù dalle colline macchiandosi d’erba, il fingere di essere assennata e giudiziosa, per tentare – solo tentare, e piuttosto maldestramente, anche – di restare con i piedi per terra, quando tutto intorno a lei era…
«Scandalosamente assurdo».
Sorrise, un sorriso dolce che rese l’espressione del suo viso alquanto simile a quella che aveva avuto da bambina. Era molto grata al destino. Il ricordo dei suoi viaggi, così vivido in principio, svaniva come nebbia, una volta tornata da questa parte, tanto da averle messo sempre addosso una certa fretta: la necessità di raccontarli, come si fa con i sogni, prima che la luce del giorno li dissolva. Il solo motivo per cui ancora li ricordava era aver avuto a disposizione qualcuno disposto ad ascoltarla, e capace di fissarli sulla carta con tutti gli onori del caso.
«Tu non capisci» mormorò guardandosi le mani intrecciate, senza saper nemmeno lei a chi si stesse rivolgendo. «Ormai sono una donna adulta. Anche il Reverendo sembra essersi dimenticato di me, proprio per questo motivo. Sono adulta, e sempre uguale a me stessa, e di certo sarebbe… disdicevole, se ora acchiappassi gonna e sottoveste e mi arrampicassi sulla mensola del camino, solo per andare a sbattere il naso contro un vecchio specchio!».
Eppure si alzò, guardandosi nervosamente attorno, e raccolse davvero la gonna fra le mani, sollevandola abbastanza da far sporgere la punta di due seriosi, austeri stivaletti ben allacciati.
La gatta la imitò, alzandosi e stirandosi con calma, per poi muovere qualche passo fino alla cesta dei gomitoli e annusare i due gattini, che non dettero segno di accorgersene. Alice la osservò, mentre le dava le spalle e usciva dalla stanza, sparendo in corridoio.
Sia qui, che nello specchio, pensò lei tornando a fissarlo. Ora che era in piedi, vi scorgeva il riflesso di quasi tutta la stanza, tranne, naturalmente, del caminetto che stava subito sotto.
Sarebbe proprio bizzarro, adesso, se vedessi del fumo salire da là in basso, nello specchio, visto che qui è spento.
Ma lo sapeva, lo aveva ribadito varie volte, fissando arditamente i grandi, dolci occhi dall’aria sognante del Reverendo, quando lui, in principio, aveva obiettato con la logica ai suoi racconti sussurrati – proprio quella logica che entrambi amavano tanto stravolgere. Nulla, da questa parte, doveva far sospettare quel che accadeva dall’altra, per cui il salotto si riempiva di fumo solo se anche il camino reale tirava male, e il sole splendeva con identica intensità, di qua e di là dallo specchio, oppure, come oggi, la stanza riflessa incupiva presto, lasciandosi invadere da un precoce crepuscolo, foriero di tempeste.
Ancora indugi, Alice? Povera te! Povera te! Stai facendo tardi!
«Tardi… per cosa?» sussurrò al fantasma delle sue fantasie – perché era ora di finirla: questo erano state, senza dubbio alcuno. Fantasie di una mente troppo accesa, troppo indisciplinata. La stessa che sembrava spingerla, adesso, quasi contro la sua volontà, a muovere due passi verso il camino; verso il pouf – Alice lo occhieggiò di soppiatto, sentendosi quasi in colpa – che le avrebbe permesso di guardare ben bene dentro lo specchio e convincersi a… ricacciarle nel tempo cui appartenevano.
Ma, povera lei, era davvero troppo tardi. Un’insana, infantile, ardente curiosità, la stessa che allora l’aveva spinta a correre dietro a un coniglio vestito di tutto punto, a ficcare il naso nella sua tana – facendosi proprio la stessa domanda! Tardi per cosa? – s’impadronì di lei, la indusse a respingere l’idea – logica, e pertanto importuna – di togliere gli stivaletti, prima di salire sul pouf e rischiare di macchiarlo – Non sia mai che arrivi dall’altra parte a piedi nudi! – e infine ad aggrapparsi alla mensola e a sporgersi fin quasi a toccare lo specchio con la fronte, ansimante, praticamente senza fiato, non tanto per quel che aveva fatto, ma per quel che averlo fatto significava davvero: l’Alice adulta e posatevole era rimasta indietro, sul pavimento; quella là in cima – a solo un misero piede e mezzo da terra, in realtà, ma sembrava molto di più – era di nuovo la vera Alice.
Adesso la smetterai, finalmente, si disse, osservando con cura ogni angolo del salotto riflesso. C’era un ricciolo di polvere, rannicchiato sotto la finestra e…
«Perché, perché rannicchiato? I riccioli di polvere non si rannicchiano, né si accucciano. Nascondersi, questo sì, sono dei veri maestri nell’aggomitolarsi dove diventa difficile scovarli, ma rannicchiarsi proprio no, Alice, è il tipo di cosa che avresti detto da bambina. Non va bene, non va bene per niente».
Non andava bene nemmeno che rimbrottasse se stessa con lo stesso tono severo di allora – era solo una recita, per scimmiottare gli adulti, le loro asfissianti regole, e gettarle subito dopo bellamente alle ortiche – o che sorridesse, nel farlo, sentendosi deliziosamente leggera e divertita. E non era assolutamente perfetto che la mensola fosse così larga, e vuota, quasi aspettasse solo che lei vi si arrampicasse per sedercisi sopra?
Forse persino la gatta l’avrebbe guardata con rimprovero, riducendo gli occhi a una fessura color smeraldo, se l’avesse vista tirar su l’abito fino alle cosce, e raccoglierlo, e issarsi con entrambe le mani fino ad appoggiare un ginocchio su quella fantastica mensola, e infine gettarsi a lato, a sedere, le gambe che dondolavano nel vuoto come quando, da bambina, stava irrequieta su sedie sempre troppo alte per lei.
Alice sbuffò, più che sospirare – arrampicarsi era stato più arduo di quanto si fosse aspettata – poi ridacchiò, nascondendo la bocca con le mani: la stanza da lassù aveva tutta un’altra aria, e anche se, ormai lo sentiva, lo specchio alle sue spalle era innegabilmente solido e impenetrabile, era felice di essersi avventurata fin là.
Poi si voltò, preda di un impulso improvviso, lo cercò di nuovo nel riflesso della stanza e non poté fare a meno di vederlo: il batuffolo di polvere sotto la finestra, immerso nella penombra, sembrava un po’ troppo compatto e solido. Si poteva davvero scambiarlo per un animaletto, una grigia creaturina indifesa, addormentata profondamente, che doveva aver attraversato il tappeto, poco prima, macchiandolo della cenere rimasta nel camino: c’era senza dubbio una sinuosa serie di impronte di zampette da roditore, a testimoniarlo.
Alice sospirò di sollievo quando constatò che da quella posizione, sotto la finestra, i gattini nella cesta non erano visibili.
«Succederebbe un putiferio» sussurrò, «se dovesse svegliarsi e li vedesse!».
Cercò con lo sguardo la teiera di porcellana, dietro il vetro molato della credenza. Era cinese, blu e bianca, con un rasserenante paesaggio di alberi e pagode e lievi colline in lontananza. Un ottimo posto per dormire.
Forse, se l’appoggiassi là vicino, da questa parte, lui potrebbe usarla, lì dove si trova. Ma sarebbe di gran lunga meglio se fossi io, a metterlo al sicuro là dentro.
Lo specchio era solido, liscio e impenetrabile, indubbiamente, e quello là in fondo era solo un ricciolo di polvere sfuggito alle pulizie, e la linea sinuosa di impronte… nient’altro che un ghirigoro, sul tappeto a fiorami, che lei non aveva mai notato prima, e ora non le restava che scendere, con molta attenzione, certo, perché cadere da lassù, alla sua età, poteva rivelarsi disastroso, e poi…
Ma non andò così. Alice scacciò con un gesto distratto quei consigli non richiesti e prese un grosso respiro. Poi trattenne il fiato, socchiuse gli occhi, per essere certa di vedere la luminosa nebbia d’argento in cui lo specchio era capace di trasformarsi, e senza pensarci un attimo di più lo attraversò.
Sollevò gli occhi, lasciando che un pensiero furtivo s’insinuasse nella sua mente: Vorrei esserne capace ancora.
Si era nel primo pomeriggio, ma quel giorno di novembre era tanto cupo da averla costretta, poco prima, ad accendere il lume sul tavolino accanto alla poltrona su cui sedeva: la finestra era colma solo di nubi pesanti, quasi nere, delle sagome degli alberi in balia del vento.
Forse era stata la fiammella nella lampada, il riflesso del suo quieto ondeggiare trasformato in un lucore diffuso e vibrante, ad attirare il suo sguardo verso lo specchio. Era proprio lo stesso, traslocato caparbiamente di casa in casa. Da bambina lo aveva attraversato senza alcun problema – un segreto ben celato da un dolce inganno: chi aveva raccontato a chi, in quel pomeriggio estivo sul lago? – ma da anni, da quando aveva deciso di essere cresciuta, era divenuto una lastra impenetrabile. Liscia, fredda e un po’ macchiata, nei punti in cui l’argentatura aveva iniziato a deteriorarsi. Proprio come l’età adulta.
C’erano due gattini tigrati, addormentati nella cesta dei gomitoli, e la madre dei due poco distante, accoccolata sulle pietre ancora calde del camino. Un tempo Alice se ne sarebbe stata lì, appagata, a guardare il loro quieto ronfare; le orecchie che si muovevano di scatto, la codina che ogni tanto tremava, anche nel sonno… Chi dei due si sarebbe mosso per primo?
Non si era quasi mai annoiata, prima, e quando accadeva, quando anche le chiacchiere, il facciamo finta non bastavano più, c’era sempre una possibilità di fuga, giusto dietro l’angolo della realtà, quello scorcio di corridoio, nello specchio, oltre il quale era impossibile guardare.
Mi aggrappavo alla mensola del camino e mi sporgevo in avanti, ricordò, per vedere se fosse identico a quello da questa parte, se fosse davvero un noioso, ordinario corridoio… È così che ci son finita dentro, la prima volta.
D’un tratto qualcosa nel suo ventre svolazzò, risalì, fermandole il cuore per un attimo, arrivò a soffocarle il respiro.
Potresti provarci ancora… insinuò una voce sottile e ambigua, nella sua mente. Non la sua voce interiore, no… Alice, udendola, aveva subito immaginato quel sorriso, sospeso magicamente a mezz’aria.
Potresti addirittura riuscirci… le suggerì, in tono più deciso.
Il cuore riprese a batterle, ma veloce, inopportuno, come volesse recuperare il tempo perso. Alice guardò i gattini, poi la gatta. I primi dormivano, indisturbati, la seconda sonnecchiava, ancora immobile e solenne come una statua: non si erano accorti di nulla.
«Sei una sciocca» sussurrò alla stanza quieta, e il suono della sua stessa voce d’un tratto le parve estraneo, sbagliato, troppo educato, troppo…
Posatevole.
Stavolta Alice sobbalzò, raddrizzando la schiena, guardandosi intorno impaurita: le era sembrato di udirla, quella parola valigia, di udirla davvero.
Ma, eccettuato il pigro sguardo a occhi socchiusi che la gatta di casa le riservò, voltando leggermente la testa, nulla accadde.
«Sì» ammise lei con un sospiro, gettandosi di nuovo indietro, a cercare il solido, sicuro sostegno dello schienale. «È proprio così. Sono posata e ragionevole, ormai, moltissimo; sono perfettamente cresciuta come chiunque altro; senza aver avuto bisogno di dispotiche boccette, biscotti invitanti e… e… lati opposti di strani funghi! Non ho proprio alcun desiderio di chissà quali assurdità… e intricati giochi di parole… e…».
Meraviglie.
Lo pensò, senza dirlo a voce alta. Una sola parola, ma così carica di tutto ciò che era stata, un tempo. Prima che cessassero i saltelli per mimare l’andatura di un cavallo, il rotolare giù dalle colline macchiandosi d’erba, il fingere di essere assennata e giudiziosa, per tentare – solo tentare, e piuttosto maldestramente, anche – di restare con i piedi per terra, quando tutto intorno a lei era…
«Scandalosamente assurdo».
Sorrise, un sorriso dolce che rese l’espressione del suo viso alquanto simile a quella che aveva avuto da bambina. Era molto grata al destino. Il ricordo dei suoi viaggi, così vivido in principio, svaniva come nebbia, una volta tornata da questa parte, tanto da averle messo sempre addosso una certa fretta: la necessità di raccontarli, come si fa con i sogni, prima che la luce del giorno li dissolva. Il solo motivo per cui ancora li ricordava era aver avuto a disposizione qualcuno disposto ad ascoltarla, e capace di fissarli sulla carta con tutti gli onori del caso.
«Tu non capisci» mormorò guardandosi le mani intrecciate, senza saper nemmeno lei a chi si stesse rivolgendo. «Ormai sono una donna adulta. Anche il Reverendo sembra essersi dimenticato di me, proprio per questo motivo. Sono adulta, e sempre uguale a me stessa, e di certo sarebbe… disdicevole, se ora acchiappassi gonna e sottoveste e mi arrampicassi sulla mensola del camino, solo per andare a sbattere il naso contro un vecchio specchio!».
Eppure si alzò, guardandosi nervosamente attorno, e raccolse davvero la gonna fra le mani, sollevandola abbastanza da far sporgere la punta di due seriosi, austeri stivaletti ben allacciati.
La gatta la imitò, alzandosi e stirandosi con calma, per poi muovere qualche passo fino alla cesta dei gomitoli e annusare i due gattini, che non dettero segno di accorgersene. Alice la osservò, mentre le dava le spalle e usciva dalla stanza, sparendo in corridoio.
Sia qui, che nello specchio, pensò lei tornando a fissarlo. Ora che era in piedi, vi scorgeva il riflesso di quasi tutta la stanza, tranne, naturalmente, del caminetto che stava subito sotto.
Sarebbe proprio bizzarro, adesso, se vedessi del fumo salire da là in basso, nello specchio, visto che qui è spento.
Ma lo sapeva, lo aveva ribadito varie volte, fissando arditamente i grandi, dolci occhi dall’aria sognante del Reverendo, quando lui, in principio, aveva obiettato con la logica ai suoi racconti sussurrati – proprio quella logica che entrambi amavano tanto stravolgere. Nulla, da questa parte, doveva far sospettare quel che accadeva dall’altra, per cui il salotto si riempiva di fumo solo se anche il camino reale tirava male, e il sole splendeva con identica intensità, di qua e di là dallo specchio, oppure, come oggi, la stanza riflessa incupiva presto, lasciandosi invadere da un precoce crepuscolo, foriero di tempeste.
Ancora indugi, Alice? Povera te! Povera te! Stai facendo tardi!
«Tardi… per cosa?» sussurrò al fantasma delle sue fantasie – perché era ora di finirla: questo erano state, senza dubbio alcuno. Fantasie di una mente troppo accesa, troppo indisciplinata. La stessa che sembrava spingerla, adesso, quasi contro la sua volontà, a muovere due passi verso il camino; verso il pouf – Alice lo occhieggiò di soppiatto, sentendosi quasi in colpa – che le avrebbe permesso di guardare ben bene dentro lo specchio e convincersi a… ricacciarle nel tempo cui appartenevano.
Ma, povera lei, era davvero troppo tardi. Un’insana, infantile, ardente curiosità, la stessa che allora l’aveva spinta a correre dietro a un coniglio vestito di tutto punto, a ficcare il naso nella sua tana – facendosi proprio la stessa domanda! Tardi per cosa? – s’impadronì di lei, la indusse a respingere l’idea – logica, e pertanto importuna – di togliere gli stivaletti, prima di salire sul pouf e rischiare di macchiarlo – Non sia mai che arrivi dall’altra parte a piedi nudi! – e infine ad aggrapparsi alla mensola e a sporgersi fin quasi a toccare lo specchio con la fronte, ansimante, praticamente senza fiato, non tanto per quel che aveva fatto, ma per quel che averlo fatto significava davvero: l’Alice adulta e posatevole era rimasta indietro, sul pavimento; quella là in cima – a solo un misero piede e mezzo da terra, in realtà, ma sembrava molto di più – era di nuovo la vera Alice.
Adesso la smetterai, finalmente, si disse, osservando con cura ogni angolo del salotto riflesso. C’era un ricciolo di polvere, rannicchiato sotto la finestra e…
«Perché, perché rannicchiato? I riccioli di polvere non si rannicchiano, né si accucciano. Nascondersi, questo sì, sono dei veri maestri nell’aggomitolarsi dove diventa difficile scovarli, ma rannicchiarsi proprio no, Alice, è il tipo di cosa che avresti detto da bambina. Non va bene, non va bene per niente».
Non andava bene nemmeno che rimbrottasse se stessa con lo stesso tono severo di allora – era solo una recita, per scimmiottare gli adulti, le loro asfissianti regole, e gettarle subito dopo bellamente alle ortiche – o che sorridesse, nel farlo, sentendosi deliziosamente leggera e divertita. E non era assolutamente perfetto che la mensola fosse così larga, e vuota, quasi aspettasse solo che lei vi si arrampicasse per sedercisi sopra?
Forse persino la gatta l’avrebbe guardata con rimprovero, riducendo gli occhi a una fessura color smeraldo, se l’avesse vista tirar su l’abito fino alle cosce, e raccoglierlo, e issarsi con entrambe le mani fino ad appoggiare un ginocchio su quella fantastica mensola, e infine gettarsi a lato, a sedere, le gambe che dondolavano nel vuoto come quando, da bambina, stava irrequieta su sedie sempre troppo alte per lei.
Alice sbuffò, più che sospirare – arrampicarsi era stato più arduo di quanto si fosse aspettata – poi ridacchiò, nascondendo la bocca con le mani: la stanza da lassù aveva tutta un’altra aria, e anche se, ormai lo sentiva, lo specchio alle sue spalle era innegabilmente solido e impenetrabile, era felice di essersi avventurata fin là.
Poi si voltò, preda di un impulso improvviso, lo cercò di nuovo nel riflesso della stanza e non poté fare a meno di vederlo: il batuffolo di polvere sotto la finestra, immerso nella penombra, sembrava un po’ troppo compatto e solido. Si poteva davvero scambiarlo per un animaletto, una grigia creaturina indifesa, addormentata profondamente, che doveva aver attraversato il tappeto, poco prima, macchiandolo della cenere rimasta nel camino: c’era senza dubbio una sinuosa serie di impronte di zampette da roditore, a testimoniarlo.
Alice sospirò di sollievo quando constatò che da quella posizione, sotto la finestra, i gattini nella cesta non erano visibili.
«Succederebbe un putiferio» sussurrò, «se dovesse svegliarsi e li vedesse!».
Cercò con lo sguardo la teiera di porcellana, dietro il vetro molato della credenza. Era cinese, blu e bianca, con un rasserenante paesaggio di alberi e pagode e lievi colline in lontananza. Un ottimo posto per dormire.
Forse, se l’appoggiassi là vicino, da questa parte, lui potrebbe usarla, lì dove si trova. Ma sarebbe di gran lunga meglio se fossi io, a metterlo al sicuro là dentro.
Lo specchio era solido, liscio e impenetrabile, indubbiamente, e quello là in fondo era solo un ricciolo di polvere sfuggito alle pulizie, e la linea sinuosa di impronte… nient’altro che un ghirigoro, sul tappeto a fiorami, che lei non aveva mai notato prima, e ora non le restava che scendere, con molta attenzione, certo, perché cadere da lassù, alla sua età, poteva rivelarsi disastroso, e poi…
Ma non andò così. Alice scacciò con un gesto distratto quei consigli non richiesti e prese un grosso respiro. Poi trattenne il fiato, socchiuse gli occhi, per essere certa di vedere la luminosa nebbia d’argento in cui lo specchio era capace di trasformarsi, e senza pensarci un attimo di più lo attraversò.
Published on June 15, 2025 10:47
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