Moore (3)
E in un racconto intitolato Che cosa ci è dato sapere su Thunderman, dentro a un libro che si chiama Illuminations: I racconti fantastici, del 2022, Alan Moore, che è uno scrittore inglese che lavorava nell’industria dei fumetti, fa dire a un suo personaggio, uno scrittore americano che lavorava nell’industria dei fumetti, questa cosa qui:
Cosa hanno di tanto speciale i supereroi? Vediamo. Be’, sono un fenomeno tutto americano che altrove non ha mai preso veramente piede. Sono una cosa che emerge in modo naturale dalla nostra cultura. Penso che in parte derivino dal nostro diritto, garantito pure dalla Costituzione, alla furtività. Della serie, se fai una cosa che potrebbe ragionevolmente farti finire nei guai, allora è meglio farla con una maschera, o con un costume addosso, o con entrambe le cose. Se andiamo al Boston tea party, ci vestiamo da pellerossa. Se abbiamo in programma un incontro a lume di torcia con il KKK, ci vestiamo da fantasmi. Ci siamo autoproclamati vigilantes con il vizio di suonarle alle classi inferiori, quindi è naturale che ci travestiamo da volpi, scarafaggi, api, cani feroci o, non lo so, ornitorinchi. E poi c’è la nostra inclinazione alla violenza. Il nostro è un Paese dove nessuno si fida di nessuno, perciò dormiamo con i fucili sotto i cuscini dai tempi dei pionieri, e la soluzione ideale per risolvere un problema è sparare e tendere imboscate. Non amiamo i conflitti se non abbiamo un certo vantaggio strategico, quindi l’idea del supereroe come essere indistruttibile o munito di denti retrattili di acciaio è rassicurante. I supereroi sono quello che sogniamo di essere. Hanno una morale, aiutano gli oppressi e, con i loro poteri speciali, eccellono in qualcosa, tutte cose che noi non abbiamo e non facciamo. Sono il nostro negativo da un punto di vista etico e, allo stesso tempo, incarnano il Sogno americano come massima espressione del suprematismo bianco. No, no, ti prego, non mi interrompere. Ci sto prendendo gusto. Per quanto riguarda il loro significato agli occhi di un pubblico contemporaneo composto prevalentemente da adulti appassionati, non ne sono così sicuro. Penso che, almeno in certi casi, siano stati una via di fuga trovata intorno ai tredici anni per vivere una pubertà alternativa, un modo per eludere tutte le prove dell’adolescenza, incluso lo sviluppo personale, e questa illusione di essersi trasferiti nel quartier generale degli United Supermen è andata avanti per dieci, trenta, cinquant’anni, finché ogni loro responsabilità sociale non è finita. Sono un modo per mantenere la stasi emotiva e per restare attaccati a un’infanzia relativamente spensierata, dove non dovevano fare i conti con un mondo sempre più complesso e alienante. Forse è per questo che sono così importanti per i lettori, ma penso che ci sia anche qualcos’altro. Penso che personaggi come Thunderman facciano davvero parte del tessuto americano.
[…] Be’, se ripensiamo all’America dei primi dieci o vent’anni del XX secolo, vediamo un Paese a malapena unito. L’identità nazionale non aveva collanti che la tenessero insieme. Tutti gli americani venivano da Paesi diversi, parlavano lingue diverse e avevano religioni e culture diverse. Appartenevano a razze e classi sociali diverse. Poi è saltato fuori che l’unica cosa su cui si trovavano d’accordo erano le canzonette che trasmettevano alla radio. Tutti amavano leggere Floyd il piedipiatti e bere Coca-Cola. Amavano i cartoni di Dickey Dog e il personaggio di Thunderman. La cultura popolare è l’unico collante che tiene insieme l’America.
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