Strength in mind, in care, in claw

Non ho passato un bel periodo ultimamente. Dalla fine di agosto in poi, per questioni personali, fatica e frustrazione professionali, percepita impotenza di fronte ai mali del mondo, mi sono un po’… lasciato andare. Niente di grave, periodo di bassa marea, solo una delle più basse registrate. Qualcuno potrebbe aver notato che ho ridotto sensibilmente la mia presenza sui vari social: non pubblico su Youtube da mesi, e su Tiktok dove di solito mettevo due video al giorno, sono arrivato a uno-due a settimana.

Sto meglio ora, e tra i fattori che mi hanno aiutato a recuperare un po’ di stabilità ce n’è anche uno che non mi aspettavo: Silksong. Il sequel di Hollow Knight uscito provvidenzialmente il 4 settembre e che è stato per oltre due mesi il fulcro di ogni mia giornata. Hornet mi ha accompagnato, sostenuto, il viaggio in Pharloom mi ha aiutato a fare pace con alcune cose, e a trovarne altre nuove. Per questo ne vorrei parlare, non tanto del gioco in sé (di questo mi occuperò altrove) ma del mio rapporto con esso.

Da qui in poi potranno essere presenti spoiler su Silksong e Hollow Knight. Se avete intenzione di giocare uno o entrambi questi giochi, non proseguite oltre.

Silksong è un videogioco metroidvania, cioè un’avventura basata su esplorazione, platforming e combattimanto, sviluppato negli ultimi sette anni da uno studio composto da due sole persone. In quanto sequel dell’acclamatissimo Hollow Knight, da cui riprende ambientazione e protagonista, c’era grande aspettativa su questo titolo, che infatti è stato così richiesto che all’uscita ha fatto crashare per varie ore tutti i server degli store di videogame. In Silksong interpretiamo Hornet, principessa protettrice del regno di Hallownest, che avevamo conosciuto come boss/npc nel primo gioco, e che qui è stata rapita e portata nel vicino regno di Pharloom, e dopo essersi liberata dai rapitori cerca di scoprire chi l’ha cercata e cosa vuole da lei. Il gioco è molto lungo, vasto, e anche parecchio difficile, per spostamenti e combattimenti richiesti per avanzare. Molti giocatori (che forse non avevano nemmeno giocato a HK prima di questo) si sono lamentati di una difficoltà eccessiva, per alcuni insuperabile, e hanno abbandonato il gioco.

Io invece ho continuato proprio per questo.

Non ne faccio una questione di tenacia, e non mi considero migliore di chi l’ha mollato. Ognuno ha le sue aspettative sull’esperienza che deve ricavare da un gioco ed è libero di decidere quando è soddisfacente e quando frustrante. Per quanto mi riguarda però, la difficoltà di Silksong è stata quel tipo di sfida di cui avevo bisogno, perché non si trattava di una barriera inattaccabile, ma di un ostacolo che poteva essere affrontato con pazienza e determinazione, abbandonando la paura di fallire. Non è la prima volta che affronto giochi di questo tipo, e ne parlavo solo poco tempo fa in riferimento a Rain World, che è considerato a sua volta un gioco difficilissimo e spietato (a ragione, e direi molto più di Silksong). Quello che è successo qui per me è di sentirmi ricompensato per la mia calma e la curiosità: molte delle sezioni più difficili, che sono state accusate di essere barriere insormontabili, io le ho trovate sfidanti ma ragionevoli, perché le ho raggiunte con conocenze, esperienze e abilità che avevo accumulato nelle ore precedenti di gioco. E a parte un paio di casi, tutte le parti più difficili (fossero boss da battere, arene di nemici da superare, o sezioni di platform da attraversare) mi sono sembrate affrontabili, al punto che ogni volta che fallivo (morivo, cascavo, sbagliavo un salto) sapevo perfettamente qual era l’errore e avevo voglia di riprovarci. La mia dedizione e la mia capacità di apprendimento sono state valorizzate, e mi hanno portato a superare ostacoli che a prima vista mi erano sembrati impossibili per le mie abilità. (NB: io non sono un gamer professionista né particolarmente bravo, ho i tempi di reazione di una vongola, infatti ci ho messo 134 ore per arrivare al true ending col 99% di completamento; eppure, pure io ce l’ho fatta).

Questo per quanto riguarda il gameplay. Rispetto alla costruzione del gioco, ambientazioni, personaggi e musiche sono stati capaci in più di un’occasione di provocarmi delle scariche emotive pazzesche. Il viaggio in ascesa in questo regno in rovina, che parte dalle grotte muschiose, passa per miniere e paludi, montagne e foreste, bivacchi e villaggi, fino alla città santa con le sue sale e gallerie, mi ha coinvolto e trascinato, mi sono trovato spinto a scoprire e indagare, godermi i colori e i suoni, al punto che a volte rimanevo semplicemente fermo a osservare intorno e ascoltare la musica. Il fatto che la stessa musica sia diegetica e faccia parte in maniera organica del gioco aggiunge un livello di profondità che mi ha fatto sentire ancora di più la grandiosità di questo mondo di insettini. Non c’è spazio per per parlare dei personaggi incontrati e di come le loro storie mi hanno spinto a proseguire (lo farò nel video di analisi che uscirà sul canale), ma faccio una lista di alcuni dei momenti che mi si sono piantati nella memoria e che penso mi rimarranno:

Il suono della campana centrale di ogni regione, che all’inizio non sembra niente di che ma quando inizia a ricorrere ti rendi conto che stai facendo qualcosa di importante.

Il momento in cui Garmond è sceso in battaglia per affrontare il mostro lanciando il suo grido “zanzibaaaaao!”

La solenne serenità del Monte Fay, una scalata solitaria, senza nemici, solo tu contro l’ambiente, che mi ha inevitabilmente ricordato Celeste (soprattutto il quarto livello).

Il primo ingresso nella cittadella, con la musica Choral Chambers che riecheggia nei corridoi vuoti.

La melodia degli Architetti, con le luci che si accendono sullo sfondo.

La prima apparizione di Grand Mother Silk con il suo urlo e la musica che esplicita il tema Dies Irae che ricorreva per tutto il gioco.

Il canto funebre per la maestra di Shakra.

La risalita dagli abissi.

L’intervento della Bell Beast per uccidere il parassita e il momento successivo in cui impariamo la sua canzone.

Scoprire Verdania, e tutta la tragica storia del suo principe.

La battaglia finale per salvare Lace, perché alla fine si tratta di questo: salvare qualcuno, una creatura imperfetta negletta dal suo creatore.

Il ricordo di Hornet, con le tre regine che l’hanno cresciuta.

Ed è qui che volevo arrivare, perché è stato probabilmente il momento più significativo di tutta l’esperienza. Poco prima della fine, Hornet ripercorre i suoi ricordi, perché sta cercando qualcosa nel suo passato. Parla con le tre madri/mentore della sua vita, tutte regine di regni diversi: la Tessitrice che l’ha generata, ma che subito dopo l’ha lasciata per assolvere il suo compito di sognatrice guardiana (questo fa parte della trama del primo gioco), che le raccomanda di scegliere da sola il proprio ruolo; l’ape regina che l’ha addestrata, che la prepara a essere pronta a difendersi da chi vorrà approfittarsi di lei; la madre-albero adottiva, moglie di suo padre, che l’ha cresciuta e le rivela che il suo compito è dure e lei la ricorderà come spietata, ma che il sacrificio è necessario. Qui Hornet però la sorprende, dicendole che comprende adesso, che tutto quello che le regine hanno fatto per lei è renderla forte. Ma non parla di una forza che vuol dire solo potenza e abilità nel battere gli altri. Dice questo:

Forza nella mente, nella cura, nell’artiglio. Forza sufficiente perché possa vivere in un mondo migliore del nostro, o costruirne uno come lo desidero.

Quello che Hornet ha imparato è dirigere la sua forza nelle tre direzioni: ragione, sentimento, fisico. E questo lo abbiamo vito nel corso del gioco, perché all’inizio Hornet vuole solo trovare chi l’ha imprigionata e vendicarsi, ma esplorando il mondo e dimostrando di essere legati alle creature più deboli di quelle terre martoriate, allora invece di finire a usurpare il posto della dea dormiente che tormenta il regno, si apre la possibilità di un’altra via, con quello che è il true ending del gioco. E la battaglia finale infatti non consiste nel distruggere o eliminare, ma nel salvare qualcuno, qualcuno che si era perso nel buio ma può ancora uscirne. Questo è il tema profondo di Silksong, quello che mi ha risuonato più di tutti.

Quando ho finito Silksong ho pianto per dieci minuti. Certo, la potenza degli ultimi minuti era enorme, ma non così tanto da farmi crollare in quel modo. È stato un momento catartico, un po’ per come il messaggio mi aveva toccato, un po’ perché quel viaggio durato due mesi era arrivato alla fine, e insieme a Hornet avevo (re)imparato a importarmi delle cose, delle idee, delle persone. Accompagnare Hornet nel suo viaggio di comprensione e apertura ha avuto lo stesso effetto su di me. Sicuramente mi trovavo in un momento fragile in cui ero particolarmente ricettivo a un messaggio del genere, ma mi è rimasto impresso dentro.

Sono ben consapevole che si tratta di first world problems, che non avevo bisogno di essere salvato da niente e i veri problemi sono ben altri e dovrei essere grato di non averli. Lo so. Ma avevo bisogno di qualcosa e l’ho trovato in Silksong. Per questo, anche se a differenza di altri giochi non ha cambiato qualcosa della mia percezione del mondo, sono sicuro che conserverò per sempre l’esperienza, e gli sarò grato per avermi condotto fuori dal mare di vuoto.

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Published on November 17, 2025 15:41
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Andrea Viscusi
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